Un giovane Poeta di valore
Jacopo Curi nasce a San Severino Marche nel 1990 e vive ad Appignano (MC). Laureato in Filologia Moderna a Macerata, è docente di materie letterarie. Ha collaborato con Licenze poetiche e Adam (Accademia delle arti Macerata) ed è stato responsabile della biblioteca comunale di Appignano. Ora collabora con Versante e Umanieventi; è membro di giuria in concorsi di poesia e partecipa a iniziative culturali con scuole e associazioni del suo territorio. Suoi testi sono apparsi su antologie di premi letterari e riviste cartacee; è rientrato nel censimento dei poeti under 40 di Pordenonelegge e nella compilation multimediale di poesia Voci collettive della poesia italiana a cura di Dimitri Ruggeri. Ha esordito con la silloge di poesia neodialettale Tutte ‘lle ‘òrde che non g’ero, contenuta in Lingua lengua. Poeti in dialetto e in italiano. Con Fabio Maria Serpilli ha curato la pubblicazione dell’antologia Poeti neodialettali marchigiani. A breve uscirà la sua prima raccolta in lingua.
XY
L’altra vita che la cerosa prosopopea mai ci
restituì, chissà se li incontrammo già allora
i nostri egoismi, che mi sembra di conoscere
la natura ossea dei tuoi zigomi, dietro ogni
volta del paesaggio di casa tua dove c’è ancora
traccia delle genetiche da potersi riprodurre
le ife la vista gli ologrammi degl’incontri.
L’IMMAGINE CHE MI CORRE ACCANTO
I.
Dentro la placenta prima
di una luce senza occhi
………………………
assopita dimenticanza
………………………
ritrovarsi
senza farci caso
a levigare la perfezione
cilindrica di un vaso
esausto di pensare
II.
Nessun dio la sera
cerco di rendermi conto
dell’effimero mentre
III.
Un mosaico di pixel
l’interferenza quadridimensionale
dove la comprensione
è un’orma sul bagnasciuga.
Come senza dire per esempi
un filo di luce sui volumi
svela per sottrazione.
Quando? lo stadio intermedio
nel frattempo
delle proto-immagini
nel monitor
della co-coscienza.
Il nervo ottico è sfilacciato,
la retina il distacco,
distanza minima senza calibro
la linea dell’intercapedine
tra me appena e poco più in là
dove fasci di elettroni
incanalano la fuga
degli elementi cosmici.
IV.
Non ho più il momento del corpo
ma il minimalismo distratto
e la distrofia, il tendine
fiaccato che non cede
il buco nero nelle tempie
l’esitazione l’atrofia
V.
smettere di essere
e l’immagine
che mi corre accanto
VI.
Della vita mi dà fastidio indossare
i pantaloni la fiumana la vescica
che preme l’afa sottocutanea,
la crisi degl’impegni incrociati
l’imbarazzo sociale.
VII.
Il sole a picco su Meursault
lungo la riga scandita dal metronomo
sfocia nel mancato omicidio
dell’inutile indifferenza
come
il preludio all’ex-sistere
come
un appiglio scivolato di mano
e un sonno sdraiato nel vuoto.
L’inerzia è la gemmazione
delle casualità
l’abbandono delle membra
il riflesso spinale che sguscia
via da un’ameba svuotata
del soffio che sono io
antropomorfo,
un abbozzo di similitudine
che dissolve
scade in metafora
risuscita simile
nella dimensione dei quanti.
VIII.
Quando sono trasmesso alla migrazione
dei viventi trascendo il trapasso stesso
e a partecipare sono riammesso
per le leggi dell’algebra (+1-1)
all’annullamento.
Il ronzio un tocco di diapason
si propaga
sibilo lineare ininterrotto
che perpetuo riscontra
la certezza fisica della presenza.
Ma non basta occupare un posto
per essere anche un’umile erbetta
o anche solo un nastro che si svolge.
Disconoscere le categorie
spappolando la testa sul muro
fino a dimenticare
di aver disconosciuto
fino a non ricordare
di essersi dimenticati.
IX.
Poi passano delle matricole in cortile
mi sollevo, vedo uno sfondo
plumbeo
una catena al palo
moscerini
cicche di sigaretta
non sento l’ingombro dell’aria
tutto si regge e avverto
brividi sull’epidermide.
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